I Galilei - Puntata n.3

Quando un cieco piange

I libri di antropologia raccontano che nelle società tradizionali della Nuova Guinea, quando due appartenenti a tribù rivali s’incontrano al di fuori dei loro rispettivi villaggi, danno avvio a una lunga discussione per cercare di stabilire se abbiano tra loro qualche parente in comune. Se poi proprio non ne trovano, allora si scannano a vicenda.
Il signor Galileo, diffidente e poco avvezzo alle visite, sospettoso di quella macchia grigiastra che scorgeva attraverso lo spioncino, mise in atto più o meno la stessa tecnica aborigena finché, dopo aver indagato ogni grado di parentela dell’ospite e averne concluso che si trattava di suo figlio, aprì la porta.
“Dov’è finito il tuo ordine, papà?” indagò Bellarmino tagliando la soffitta in due falcate fino a raggiungere la finestra. Ispezionava tutto con un viso da rapace notturno, le pupille aperte come periscopi, evitando di proposito gli occhi del padre. Gli doleva constatare, sugli angoli alle pareti, la capillarità con cui si stavano distribuendo frange di ragnatele tanto spesse da far pensare allo zucchero filato.
“Ultimamente ho avuto poco tempo…” rispose il signor Galileo, ancora immobile nei pressi della porta. Effettivamente in poco tempo la sua soffitta si era ingarbugliata senza che lui se ne fosse ancora accorto.
“Il tuo cane?” chiese Bellarmino riattizzando il colloquio. Ora stava seduto sulla poltrona come un uomo addestrato al potere. Solo ogni tanto quel suo agitare il polso per far scivolare l’orologio un po’ più giù gli restituiva i tratti della persona che un tempo era stata giovane e semplice.
“Non so, non torna da due giorni…” ribatté Galileo con una voce leggermente strozzata ma decisa. “Giovedì abbiamo pranzato, poi lui è uscito e adesso non so.”
Bellarmino passò a una voce del tutto accomodante, eppure più volitiva: “Sarai sereno, spero. Quel cane era insolente. Per non parlare di quello che oggigiorno costa mantenere una bestia.”
“Ma senza di lui faccio fatica a far tutto” spiegò il signor Galileo senza nemmeno accennare a quella cosa tra uomo e animale catalogata sotto la voce “amicizia”.
“A proposito di quello che riesci o non riesci a fare: ho parlato con il medico. Dice che la tua vista è definitivamente compromessa.”
“Ma, è molto che non mi fa visita.”
“Appunto, sono stato da lui ieri. E secondo il suo parere, arrivati a questo punto, la schermatura della retina dovrebbe aver già raggiunto l’ultimo stadio.”
“Beh, insomma… ultimo stadio. Non esageriamo.”
“Quanti sono questi?” reagì fulmineo Bellarmino.
“Quali?”
“Questi!”
Nell’aria sbandierava quattro dita a ventaglio. Non arrivò risposta.
“Bene. A questo punto mi sembra inutile andare oltre” concluse riabbassando la mano con la mimica severa dello scienziato che ha dimostrato senza sforzo la sua teoria.

Quando, tre giorni dopo, il signor Galileo si ritrovò nella stanza 102 di una clinica del centro, non ebbe più alcun dubbio sul perché suo figlio si fosse dimostrato tanto risoluto nel sostenere che non poteva più abitare da solo: l’aveva spedito lì per impossessarsi della sua soffitta e metterla nelle mani della sua società immobiliare, azienda per la quale – Galileo lo ricordava – aveva fatto anche da garante al tempo in cui il ragazzo doveva “farsi”.
Bellarmino aveva fatto trasferire poca cosa dei suoi effetti personali: mancavano tutti i libri, la pipa e le riviste scientifiche che aveva catalogato con laboriosità proprio negli ultimi mesi. Gli eventi avevano colto il signor Galileo non tanto con la furia della tempesta quanto con il morbo della bonaccia: l’avevano reso inerte, incapace di organizzare reazioni. Così l’unica cosa che fece una volta ambientatosi nel nuovo ambiente fu cambiare le federe del cuscino con le proprie portate da casa. Lontano dalla sua soffitta, il solo posto che riusciva a vedere anche senza i suoi occhi, sembrava fosse caduto anzitempo nel pieno della sua prossima cecità. E di questo gemeva tra sé e sé.
“Porti sempre con sé quel telecomando. Il tasto centrale chiama l’infermiera” disse una voce ruvida che proveniva dalla porta.
“Buongiorno” si affrettò a replicare Galileo voltandosi in quella direzione.
“Sto nella stanza accanto” proseguì l’uomo come se non avesse sentito il saluto. “Ormai qui sono di casa, perciò se ha bisogno di favori o cose del genere, chieda a me. Qualcosa le costerà, ma poco…”
“Capisco. Beh, signore, ne terrò conto.” Galileo, nella penombra, distingueva appena una figura bassa e magra, con quello che sembrava un bastone.
“Mi pare di intuire che siamo qui per lo stesso motivo” riattaccò lo sconosciuto.
“Se è vero quello che dice, non mi capacito di come possa rendersene conto…” fece Galileo, stupito.
“Fiuto” disse, “Sono un cieco e il mio mondo è pallido quando un cieco piange…” recitò poi con la voce grossa.
“Come?”
“Nulla, parole di altri. Si chiamano Deep Purple.”
Tre minuti dopo Galileo era nella stanza 103, quella a fianco, ad ascoltare le parole di una canzone rock da un disco che il suo corridoio vicino di camere aveva presentato come una prima stampa sì, ma polacca, per cui di scarso valore. Aveva anche raccontato che risiedeva nella pensione da ormai cinque anni, un lusso pagato interamente con l’eredità di una zia, ma che durante il giorno usciva per occuparsi di questioni molto importanti.
“Dalla nascita?” osò chiedere il signor Galileo ora che si sentiva un po’ più in confidenza. “Voglio dire… la vista…”
“Sì. Lei sembra uno nuovo, invece. Pesta ancora contro parecchi spigoli…”
“Ha ragione. Diciamo ipovedente
. Per adesso, luci e ombre rimangono.”
Un abbaiare canino proveniente dalla strada destò l’attenzione dei due. Il cieco, con tutta la sua esperienza, guidò il quasi-cieco sul balconcino della stanza. Le loro pelli si scaldarono con i raggi del sole e Galileo abbassò lo sguardo senza riconoscere nessuna forma.
“Galileo, sei tu?” gridò a voce alta l’uomo.
Quando Galileo, il cane, riconobbe il volto del Gracco a fianco di quello del padrone capì che le cose erano notevolmente cambiate nei giorni in cui era stato lontano.
“Dev’essere il mio cane! Mancava da un po’…” disse Galileo, l’uomo, preso da un’istantanea euforia.

“Quest’odore non mi è nuovo” ribatté il Gracco scuotendo le narici come un golden retriever.  

I Galilei - Puntata n.2

Inafferrabile

“… capite???”
L’uomo che parlava senza virgole concludeva così la sua requisitoria davanti a una frotta di gabbiani dal becco mandarino. Loro, impegnati com’erano a piluccare un tozzo di pane vicino alla bitta n. 66, non avevano dato molto retta ai quei discorsi sul furto di vecchi vinili.
Così lui, per la strada, cercò di concentrarsi sulle sue mani. Le dita dell’uomo senza virgole infatti, se lasciate andare tremavano sempre, e tenerle a bada costava ogni volta sudore. Era febbraio, era giovedì, era mezzogiorno, aveva appena finito di alzare certi giganteschi container con la sua gru a cavaliere e si preparava a scegliere con cura. Avrebbe evitato da subito rock e disco music, troppo centrali, si sarebbe portato verso i più laterali jazz e folklore; poi, nell’attesa che i clienti intorno si facessero almeno in quattro o cinque, avrebbe iniziato ad abbassare la lampo della tuta preparando la pescata.
Alzò lo sguardo. In quella striscia di cielo sopra il vicolo, il sole dormiva dietro un foglio di grigie nubi, come in un lutto.
Abbassò lo sguardo. Nel vicolo c’erano mani e si muovevano, accendevano sigarette, impastavano paste di pane, accarezzavano gatti, reggevano bicchieri, indicavano altre mani, ovunque. L’uomo senza virgole guardò le sue: larghe e tozze con i pollici smodati e quasi deformi, un taglio profondo sulla nocca dell’indice e uno su quella del medio, tracce di grasso che rendevano nera ogni linea del palmo.
Ed ecco là una mano alzata, ricoperta da troppa bigiotteria, il Gracco che ordinava da bere con un cenno teatrale al ragazzo del bar. Il Gracco era il venditore ambulante di dischi, un mastino che controllava il territorio con i movimenti lenti di un condor andino, senza vedere nulla (era cieco dalla nascita) ma captando tutto, odorando il ladruncolo già all’imbocco del vicolo, avvertendo le vibrazioni dello scippatore con un istante di anticipo sulla sua fuga. In tanti anni l’uomo senza virgole era stato l’unico in grado di eludere un tale sistema di sicurezza.
Ora allontanò con un brivido il pensiero, nuovo di zecca, che qualcosa sarebbe potuto andare storto. Quando, con i movimenti di un gatto, appoggiò la mano destra sulla pila orizzontale di dischi, il nemico lo incrociò con i suoi occhiali da sole scuri. Un refolo d’aria mosse una lattina e le campane suonarono. Subito, come nei piani, cercò la B di “be bop” e le si mise di fronte. Dalla “classica”, un habitué sulla cinquantina fanatico di Händel lo incoraggiò con un “Vai e vinci per tutti noi”, detto con gli occhi.
La situazione: appena due clienti, di cui uno impegnato a discutere col nemico sull’anno di stampa di un classico blues. L’uomo senza virgole pensò che tutto sommato aveva portato a casa in condizioni ben peggiori.

Galileo, il cane, non si era dimenticato dell’appuntamento e aveva corso più forte che poteva. Erano mesi che non superava la strada trafficata e si spingeva verso il centro. Quando arrivò sulla via vide la scena da lontano, all’altezza del gioielliere: il Gracco aveva appena tirato una scudisciata sulle mani dell’uomo senza virgole e un istante dopo aveva lanciato il suo grido d’allarme. Due delle sue guardie si erano alzate dai tavolini del bar, altre due erano sbucate dalle verze e dai carciofi del fruttivendolo, e in pochi istanti ogni via di fuga era bloccata.
Si diede una spinta decisa sulle zampe posteriori e in un balzo addentò il bordo di un cartone di vecchi 45 giri. La baraonda aumentò. Il Gracco cacciò un altro urlo agitando nel vuoto lo scudiscio. Gli sgherri si lanciarono contro il nuovo bersaglio, e l’uomo senza virgole se la diede a gambe. Poi finì tutto molto in fretta: il cane mollò l’osso e gli uomini si quietarono, limitandosi a qualche insulto in senso lato contro ogni essere vivente dotato di quattro zampe. Galileo si dileguò al trotto per un vicolo che puntava al mare, mentre il Gracco cominciò a dare disposizioni su come riassettare il suo bazar con il respiro affannato di un Papa appena scampato a una congiura. La situazione tornò quasi calma.

Quando si svegliò, l’uomo senza virgole era sdraiato sul divano e aveva i piedi intirizziti. Tornò su quanto era accaduto. La corsa, la folla, il rientro a casa, il sonno spesso in cui era inciampato già sulla porta d’ingresso. Si mise seduto. Fuori dalla finestra vide gocce d’acqua che cadevano dall’alto. La casa era fredda. E l’uomo provò l’imbarazzo di una solitudine impotente e destinata. Pensò al cane Galileo, e si chiese dov’era, se erano vivi lui e quei dischi foschi e corvini come gli occhi del Gracco. Non avrebbe più rubato, decise. Però gli rimaneva un’ultima caramella da scartare, il disco che nella confusione gli si era appiccicato sotto la salopette e che lui aveva stretto per tutto il tempo della fuga per paura che cadesse o scomparisse.
Solo dentro quattro mura maculate di umidità, mentre le prime note dell’ultima refurtiva si aggrappavano come mollette allo stendino del pentagramma, l’uomo senza virgole (che nella nostra storia, per ora, è anche senza un nome) pensò al suo bisogno patologico di musica sempre nuova.
“Questo non è be bop…” concluse subito.

Infatti. Charles Mingus suonava con la sua orchestra e senza dire una parola in nove minuti si dimostrò convincente sul fatto che no, il suo non era semplice be bop. Era l’inafferrabile.

I Galilei - Puntata n.1

Saudade.

La finestra, appesa alla grondaia come un lenzuolo fosforescente nel buio della sera, non aveva mai avuto una tenda. Nemmeno uno straccio appeso, neppure un pizzo rubato al tavolino di cristallo. La porta era sempre aperta per la luna, talvolta era color del rame e Galileo, il cane, le faceva la guardia da sotto il comò; altre volte rimaneva tanto oscura da perderla di vista e Galileo, l’uomo, la cercava.
In salita Sant’Agostino la luna tornava appena poteva, ogni volta che qualche marinaio appena sbarcato soffiava via insieme al fumo delle sue nazionali le poche nuvole ormai sfilacciate che avevano scollinato giù per i monti.
Quella sera spuntò dalle tegole del quattro piani di fronte e pensò di appoggiare i primi raggi sull’ultima lettera arrivata a casa. L’ufficio Inps comunicava a Galileo, l’uomo, che la sua pensione d’invalidità dal mese successivo si sarebbe ridotta di dodicimila lire.
Si innervosiva difficilmente, il signor Galileo. Preferiva gestire tutto con la massima tranquillità. Avere le cose sotto controllo lo rilassava. I primi tempi li aveva passati a mappare ogni centimetro della sua mansarda, e ora che ne conosceva alla perfezione ogni angolo, persino le pieghe del copri divano, poteva dirsi un quasi-cieco soddisfatto. Sapeva il mondo a memoria. Ogni cosa, nei trenta metri quadrati, gli era perfettamente distinguibile. Dal giorno dell’incidente, in quel mese che la vista gli era crollata al ritmo spietato di mezzo decimo al giorno, il signor Galileo si era lasciato andare a un training preparatorio dei più inflessibili. Aveva imparato a riconoscere le coperte dalla trama della lana, a leggere le lettere con la lente d’ingrandimento, a fare il bucato e a battere il pesto senza rompere i pinoli. Una dedizione totale che lo aveva portato fuori di casa solo in rarissime occasioni, indispensabili per la sopravvivenza sua e di Galileo, il cane.
Il signor Galileo tornò a sedersi. Strinse con entrambe le mani la tazza verde con l’infuso al carciofo e reclinò il collo leggermente all’indietro.
“Tornerai a trovarmi anche quando non ti potrò più vedere?” domandò al satellite che ora s’era scoperto quasi tutto e allargava il Mare della Tranquillità in un sorriso accennato, una sagoma grigio scura sul volto giallo opalino, annuendo.
Il signor Galileo pensava al termine sempre più spesso
Allo scoccare delle dieci si ridestò da questi tristi pensieri, si alzò e si diresse verso la porta. Galileo, il cane, lo seguì. Dal mobiletto estrasse una busta bianca.
“Scendendo metti questa sullo zerbino della signorina Venì, sono i soldi della spesa di ieri” disse al compagno aprendo e facendolo uscire. La signora Ada Venì comprava sempre qualcosa al supermercato anche per loro. Lo faceva in maniera tanto gentile, tuttavia si atteneva sempre alle sue abitudini: buste di semolino, alici marinate, filo interdentale, cotton-fioc della peggior marca, acqua leggermente frizzante (per lei che aveva problemi di aerofagia) e talvolta persino dei pacchetti di salva slip ruvidi come carta vetrata che il signor Galileo, non sapendo come smaltire, usava per grattarsi le scapole.
Attese mezzo minuto. Quando sentì abbaiare pigiò sul tasto nero del citofono e aprì il portone.

“Ciao Galileo, bello…”
Nella penombra rosseggiava il pallino della super-slim di Violante, il trans. Galileo le dedicò uno sguardo da vecchio compagno di scuola, poi imboccò il sottopassaggio, annusò i copertoni di una bicicletta appoggiata al muro e puntò il muso tra le inferriate di una finestrella illuminata. Un uomo stava seduto sul water a pantaloni abbassati e faceva i suoi bisogni mentre si preoccupava di versare qualche goccia d’acqua in un vasino di primule.
“Galileo cagnone era ora!” disse non appena si accorse di lui. 
Galileo lo salutò sottovoce.
“Stasera inizio prima non ho molto tempo vieni dai che ti apro.” L’uomo parlava senza virgole.
Il cane rimase a osservarlo mentre strisciava un foglio di giornale per pulirsi, tirava lo sciacquone e si riallacciava la salopette blu da lavoro. Poi quando la luce del bagno si spense trottò verso il portoncino di legno e aspettò con la lingua di fuori.
“Eccoci su entra” disse l’uomo che parlava senza virgole dopo aver tolto due mani alla serratura. “Oggi mi sono alzato un po’ prima e ho approfittato per fare un po’ di ordine visto?”
Abitava in un monolocale nel seminterrato di una vecchia palazzina senza intonaco.
“Sei fortunato stasera. (L’uomo parlava senza virgole ma ogni tanto respirava e quindi si concedeva un punto). Ne ho preso uno senza pacchetto così nudo ma è buono suona bene.”
Galileo seguì l’uomo mentre afferrava la coda elettrica del giradischi e la infilava, pieno di solennità, nella presa a muro.
“Fado di Lisbona. Guitarra portuguésa.”
Il disco suonò. E quando fu silenzio il cane e l’uomo piangevano saudade.
“Proprio stasera che mi arriva un cargo da Hong Kong non ci voleva questo cuore gonfio… (pausa lunga, i tre puntini) Per i grossi arrivi dall’oriente abbiamo bisogno d’altro settimana prossima se vieni peschiamo del be bop! (esclamativo di risolutezza)”
Già aveva le chiavi in mano e una manica della giubba infilata, l’uomo, quando dava sfogo a queste sue considerazioni.
S’era fatto tardi.

Era triste il signor Galileo, uomo accorto e parsimonioso, convinto che intelligenza e tirchieria non potevano convivere nell’animo di una persona che s’era posta la difficile sfida della saggezza. Si vergognava d’aver congetturato tutta sera sopra quelle dodicimila lire, scordandosi così del suo cane di nuovo in ritardo come ormai ogni giovedì da un anno e mezzo a quella parte.

Di colpo dal vicolo abbaiarono. E Galileo aprì a Galileo.

Corpi

Si può diventare orrendi, a stare insieme. Nessuno rischia di farci esprimere la nostra bassezza e la nostra volgarità come chi può considerare un'abitudine vederci nudi.
(Chiara Gamberale, L'amore quando c'era, 2011)

Le parti oscure dell'amore. L'amore che sa trasformarsi nel suo esatto opposto. Oppure che accoglie tutto, mostra le anime in 3D. "Come siamo arrivati fino a questo punto?" dice un personaggio qualunque in un film qualunque, rivolto alla sua metà che si stacca da lui.
Non voglio costruire un bigino sulla fenomenologia amorosa. Men che meno spingermi a camminare su quella corda da funambolo che è il giudizio sui meriti e i demeriti di coppia. Eppure c'è che questa frase trovata in un libricino di Chiara Gamberale (storia ruggente perché nostra a priori, già vissuta e da vivere, tra un intreccio snello e un prevedibile finale) mi fa fermare sopra i corpi degli amanti. Il nostro corpo quando diventa oggetto, strumento e soggetto d'amore. Il corpo che macina desideri, disegna aspettative, e muta, muta più velocemente di un sentimento. Il corpo che è simbolo e traccia della parabola d'amore. Il corpo quando è pura nudità e nient'altro. 

Ecco, il vederci nudi, appunto. Mi vengono in mente le coppie di un tempo. Mariti e mogli che non si sono mai visti nudi l'un l'altro. L'abitudine di fare l'amore al buio. E la donna che nemmeno si sveste, alza la camicia da notte e allarga le gambe a un rapporto che è sacro perché matrimoniale, voluto da Dio e dalla natura per offrire nuovi corpi a questo mondo. Il pudore con cui i coniugi frequentavano la propria camera da letto. Un amore (o non amore, perché non è sempre detto ci fosse, e allora chiamiamolo unione) che di certo non aveva tutto il bisogno della vista che ha oggi. Vista che è campo in cui seminare freneticamente il desiderio e la pulsione. E così passare da un corpo all'altro, pur di non annoiarsi.
Uomo e donna così abituati a vedersi nudi da perdere di vista il sacro che nel corpo abita. Trasformare il dono in preda, prima. In giocattolo triste e noioso, poi. Diventare orrendi, il rischio.
Non so dove ci porterà tutta questa ostentazione.    

I poeti in torretta #1


Svegliati. Il giorno ti chiama
alla tua vita: il tuo dovere.
A nient’altro che a vivere.
Strappa ormai alla notte
negatrice e all’ombra
che lo celava, quel corpo
di cui è in attesa, sommessa,
la luce, nell’alba.
In piedi, afferma la retta
volontà semplice d’essere
pura vergine verticale.
Senti il tuo corpo.
Freddo, caldo? Lo dirà
il tuo sangue contro la neve
da dietro la finestra;
lo dirà
il colore sulle tue guance.
E guarda il mondo. E riposa
senz’altro impegno che aggiungere
la tua perfezione a un altro giorno.
Il tuo compito
è sollevare la tua vita,
giocare con lei, lanciarla
come voce alle nubi,
                                                                                                     a riafferrare le luci
che ci hanno lasciato.
Questo è il tuo destino: viverti.
Non devi fare nulla.
La tua opera sei tu, niente altro.

La beneficenza dello scrittore: una lettera apertissima (anche alle critiche)


Mi è capitato diverse volte di ricevere inviti a scrivere racconti per antologie di nuovi e giovani autori in cambio della gloria e della celebrità. In alcuni casi ho accettato, ma poi per una cosa o per l'altra quelle antologie non sono uscite. Da un certo tempo a questa parte ho invece deciso di non accettarle più. Così come ho intenzione di far terminare i miei rapporti con realtà editoriali per le quali faccio la cosiddetta "beneficenza". Ovviamente non certo perché io mi reputi così valido nel mestiere da meritare importanti riconoscimenti economici. Ma perché credo che in ballo ci siano questioni cruciali.


Proprio oggi mi è giunto un nuovo invito a far parte di un florilegio di giovani penne nostrane. Alla sfortunata curatrice (valida scrittrice e curatrice editoriale, onesta nel chiarirmi da subito le condizioni della cosa) è capitato in sorte di diventare il capro espiatorio con cui mi sono concesso un piccolo sfogo sull'argomento. A lei - per non farle perdere troppo tempo e per preservarla da una paternale fors'anche fuori luogo - ho risposto con una versione breve. A voi invece non vi preservo e vi rifilo per intero quella che avrebbe voluto essere la mia risposta:


Ciao ***,

piacere di risentirti! Ti ringrazio di aver pensato a me. La cosa è interessante e come sai difficilmente mi tiro indietro. 
Però ora come ora mi occorre capire alcune cose, visto che non è la prima volta che mi vengono fatte proposte di questo tipo. In primis: questo libro avrà un costo, giusto? Bene, significa che una persona qualunque per poterlo possedere dovrà spendere del denaro. Questo denaro a chi andrà? Nella mia visione forse antica delle cose il denaro ricavato dalla vendita di un libro dovrebbe andare in parte all'editore (e ai professionisti a cui si è rivolto per la realizzazione del volume) e in parte all'autore. Nel caso, anche a un eventuale curatore. E io credo che questo debba continuare ad avvenire, se vogliamo che i mestieri della scrittura vadano avanti.

Nel caso specifico: capisco lo scarso volume di vendita di queste antologia, capisco che il ricavato diviso tra tutti gli autori dei racconti si tradurrà in una cifra ridicola, metto in conto mille altre variabili... ma quella cifra ridicola va garantita. E' il riconoscimento di un lavoro intellettuale che si sta sempre più svendendo. Fossero solo 1 euro o 50 centesimi, quello che conta, lo capirai bene, è il significato. 

Tu mi potrai dire: ma nemmeno l'editore ci guadagna nulla. Benissimo, allora chi ci guadagna? Solo lo stampatore? Ecco, allora fermiamoci. Perché un mercato librario in cui non ci guadagna più nessuno non ha senso di esistere. Soprattuto se perde di vista l'origine. E l'origine di un testo sta in colui che l'ha pensato e realizzato. Fa sorridere pensare che "autore" derivi dal latino "auctoritas", l'autorità intesa come potere legittimato, riconosciuto, a cui tutti si affidano: possibile che oggi l'autore sia finito così indietro? Ultima rotellina di un ingranaggio a cui, per la verità, manca anche l'olio...

E ancora mi si potrebbe rispondere: con tutta la burocrazia da cui siamo sommersi, pagarti quel minimo (e simbolico) ricavo costerebbe all'editore molto più di quel ti dovrebbe. Verissimo. A un editore che mi dicesse "guarda, ti dovrei 5 lire, ma pagartele mi costa 10" io sono pronto a stringere la mano. Sarà l'autore, in questo caso, a capire, magari rinunciando, con un po' di buon senso, a quelle 5 lire. Ma proporsi fin da subito come un editore che non ti pagherà per nulla non è logico. Anche perché: immaginiamo che per ragioni a noi del tutto ignote il libro dovesse vendere migliaia di copie, magari perché contiene un racconto splendido di uno scrittore che di lì a poco avrà ottenuto un successo planetario... Quell'autore, avendo firmato una liberatoria, non ci guadagnerà nulla. Idem tutti gli altri. Un paradosso. E' vero che il loro nome girerebbe, ci si farebbe conoscere. Ma non possiamo più accontentarci di fare le cose perché infarciscono il curriculum. Soprattutto di questi tempi in cui c'è troppo di tutto, in cui tutti leggono e vedono tutto ma non si ricordano nulla. Così la letteratura fa una brutta fine.

Da ultimo, giusto per non passare per incoerente: naturalmente ho scritto articoli, saggi o racconti gratuitamente e per libri che avevano il loro bel prezzo di copertina. Ma in quel caso si trattava di omaggiare un artista, un'etichetta discografica, un paese, una squadra di calcio che ero convinto meritassero il mio impegno. Ne ero anzi onorato. Ma qui mi pare si tratti d'altro.  

Ora, spero tu mi possa smentire seduta stante. Magari chiarendomi che si tratta di un'iniziativa di beneficenza, oppure che il libro fa parte di un progetto editoriale gratuito con il solo (e nobile) scopo di diffusione culturale. In tal caso accetterò volentieri il tuo invito e mi metterò al lavoro per fare del mio meglio. Ma se le cose stanno così - e se gli autori nemmeno avranno il piacere di ricevere una copia omaggio - beh, purtroppo devo dirti di no. Uso il "devo" perché sento, nel mio piccolissimo, il senso di responsabilità verso un futuro, quello del libro, che è sempre più incerto nel nostro Paese.

Ti ringrazio e ti abbraccio
Antonio