Saudade.
La finestra, appesa alla grondaia come un lenzuolo fosforescente nel
buio della sera, non aveva mai avuto una tenda. Nemmeno uno straccio appeso,
neppure un pizzo rubato al tavolino di cristallo. La porta era sempre aperta
per la luna, talvolta era color del rame e Galileo, il cane, le faceva la
guardia da sotto il comò; altre volte rimaneva tanto oscura da perderla di
vista e Galileo, l’uomo, la cercava.
In salita Sant’Agostino la luna tornava appena poteva, ogni volta che qualche
marinaio appena sbarcato soffiava via insieme al fumo delle sue nazionali le
poche nuvole ormai sfilacciate che avevano scollinato giù per i monti.
Quella sera spuntò dalle tegole del quattro piani di fronte e pensò di
appoggiare i primi raggi sull’ultima lettera arrivata a casa. L’ufficio Inps
comunicava a Galileo, l’uomo, che la sua pensione d’invalidità dal mese
successivo si sarebbe ridotta di dodicimila lire.
Si innervosiva difficilmente, il signor Galileo. Preferiva gestire
tutto con la massima tranquillità. Avere le cose sotto controllo lo rilassava.
I primi tempi li aveva passati a mappare ogni centimetro della sua mansarda, e
ora che ne conosceva alla perfezione ogni angolo, persino le pieghe del copri
divano, poteva dirsi un quasi-cieco soddisfatto. Sapeva il mondo a memoria.
Ogni cosa, nei trenta metri quadrati, gli era perfettamente distinguibile. Dal
giorno dell’incidente, in quel mese che la vista gli era crollata al ritmo
spietato di mezzo decimo al giorno, il signor Galileo si era lasciato andare a
un training preparatorio dei più inflessibili. Aveva imparato a riconoscere le
coperte dalla trama della lana, a leggere le lettere con la lente
d’ingrandimento, a fare il bucato e a battere il pesto senza rompere i pinoli.
Una dedizione totale che lo aveva portato fuori di casa solo in rarissime
occasioni, indispensabili per la sopravvivenza sua e di Galileo, il cane.
Il signor Galileo tornò a sedersi. Strinse con entrambe le mani la
tazza verde con l’infuso al carciofo e reclinò il collo leggermente
all’indietro.
“Tornerai a trovarmi anche quando non ti potrò più vedere?” domandò al
satellite che ora s’era scoperto quasi tutto e allargava il Mare della
Tranquillità in un sorriso accennato, una sagoma grigio scura sul volto giallo
opalino, annuendo.
Il signor Galileo pensava al termine sempre più spesso
Allo scoccare delle dieci si ridestò da questi tristi pensieri, si alzò
e si diresse verso la porta. Galileo, il cane, lo seguì. Dal mobiletto estrasse
una busta bianca.
“Scendendo metti questa sullo zerbino della signorina Venì, sono i
soldi della spesa di ieri” disse al compagno aprendo e facendolo uscire. La
signora Ada Venì comprava sempre qualcosa al supermercato anche per loro. Lo
faceva in maniera tanto gentile, tuttavia si atteneva sempre alle sue
abitudini: buste di semolino, alici marinate, filo interdentale, cotton-fioc
della peggior marca, acqua leggermente frizzante (per lei che aveva problemi di
aerofagia) e talvolta persino dei pacchetti di salva slip ruvidi come carta
vetrata che il signor Galileo, non sapendo come smaltire, usava per grattarsi
le scapole.
Attese mezzo minuto. Quando sentì abbaiare pigiò sul tasto nero del
citofono e aprì il portone.
“Ciao Galileo, bello…”
Nella penombra rosseggiava il pallino della super-slim di Violante, il
trans. Galileo le dedicò uno sguardo da vecchio compagno di scuola, poi imboccò
il sottopassaggio, annusò i copertoni di una bicicletta appoggiata al muro e
puntò il muso tra le inferriate di una finestrella illuminata. Un uomo stava
seduto sul water a pantaloni abbassati e faceva i suoi bisogni mentre si
preoccupava di versare qualche goccia d’acqua in un vasino di primule.
“Galileo cagnone era ora!” disse non appena si accorse di lui.
Galileo lo salutò sottovoce.
“Stasera inizio prima non ho molto tempo vieni dai che ti apro.” L’uomo
parlava senza virgole.
Il cane rimase a osservarlo mentre strisciava un foglio di giornale per
pulirsi, tirava lo sciacquone e si riallacciava la salopette blu da lavoro. Poi
quando la luce del bagno si spense trottò verso il portoncino di legno e
aspettò con la lingua di fuori.
“Eccoci su entra” disse l’uomo che parlava senza virgole dopo aver
tolto due mani alla serratura. “Oggi mi sono alzato un po’ prima e ho
approfittato per fare un po’ di ordine visto?”
Abitava in un monolocale nel seminterrato di una vecchia palazzina
senza intonaco.
“Sei fortunato stasera. (L’uomo parlava senza virgole ma ogni tanto
respirava e quindi si concedeva un punto). Ne ho preso uno senza pacchetto così
nudo ma è buono suona bene.”
Galileo seguì l’uomo mentre afferrava la coda elettrica del giradischi
e la infilava, pieno di solennità, nella presa a muro.
“Fado di Lisbona. Guitarra portuguésa.”
Il disco suonò. E quando fu silenzio il cane e l’uomo piangevano saudade.
“Proprio stasera che mi arriva un cargo da Hong Kong non ci voleva
questo cuore gonfio… (pausa lunga, i tre puntini) Per i grossi arrivi
dall’oriente abbiamo bisogno d’altro settimana prossima se vieni peschiamo del
be bop! (esclamativo di risolutezza)”
Già aveva le chiavi in mano e una manica della giubba infilata, l’uomo,
quando dava sfogo a queste sue considerazioni.
S’era fatto tardi.
Era triste il signor Galileo, uomo accorto e parsimonioso, convinto che
intelligenza e tirchieria non potevano convivere nell’animo di una persona che
s’era posta la difficile sfida della saggezza. Si vergognava d’aver
congetturato tutta sera sopra quelle dodicimila lire, scordandosi così del suo
cane di nuovo in ritardo come ormai ogni giovedì da un anno e mezzo a quella
parte.
Di colpo dal vicolo abbaiarono. E Galileo aprì a Galileo.
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