Un passaggio.
Il professor Galileo Arcetri era stato un
insegnante vecchia maniera, precisissimo, così preoccupato di far fruttare ogni
minuto in cui sceglieva di mettere la sua sapienza a disposizione della
collettività che, fosse stato possibile, avrebbe sacrificato un occhio della
testa pur di eliminare dal lunedì quegli odiosi dieci minuti d’intervallo che
interrompevano sul più bello le due ore consecutive di lectio magistralis in terza A.
In generale, a detta degli studenti, le sue lezioni
sembravano durare il doppio, tanto erano fitte di glossari botanici, appunti di
genetica, riproduzioni cellulari, tettonica a placche e schemi di chimica
organica. Raramente si concedeva più di cinque minuti d’interrogazione: anzi,
cinque minuti erano già troppi perché i farfugliamenti di un impreparato
qualunque togliessero tempo e spazio alle sue dotte prolusioni.
Quel giorno doveva essersi alzato con il piede
sinistro e una luna storta come la mandibola di un pugile, si era seduto con il cappotto indosso e senza consultare il registro aveva pronunciato il
nome di Bonaventura con l’intonazione di un oracolo.
Bonaventura non aveva studiato. Non ci fu nemmeno
bisogno di impiegare tutti e cinque i minuti: a metà del secondo aveva già
sbagliato il numero atomico del Selenio e si era confuso sulle proprietà dei
metalli alcalini. Cadute inappellabili che l’avevano rispedito al posto con un
4 sul libretto che, di fatto, consisteva nel suo ultimo voto di scuola. Dopo
sei mesi senza lo straccio di una sufficienza e la prospettiva di una più che
attendibile bocciatura, infatti, i signori Bonaventura ritirarono il figlio e
lo spedirono senza ricevuta di ritorno nel mondo del lavoro.
Allontanarsi dai banchi di scuola e dagli occhiali
appannati dei professori era stata in sé anche una bella cosa per il giovane
Ermes Bonaventura. Ma, più che quello delle merci che iniziò a sollevare al
porto, per il ragazzo fu insostenibile il peso di dover abbandonare gli studi
di musica, il suo strumento e il sogno di mettere in piedi una di quelle big
band da fare invidia al Cotton Club. Padre e madre erano stati irremovibili: la
vendita del sassofono avrebbe in parte rimborsato il denaro speso inutilmente
nel tentativo di farlo diventare uomo di cultura. E, affronto ancor più grave,
lo strumento era stato messo in mano alla causa d’ogni sua rovina, quel
professor Arcetri il cui figlio s’era messo il pallino di uno strumento a
fiato.
Tutte queste cose Ermes Bonaventura le raccontò
davanti alla tazza di infuso al carciofo che il suo vecchio professore si era
fatto preparare. Si trovavano in una stanza spoglia al secondo piano di una
clinica per anziani ed invalidi. Era un tardo pomeriggio di fine primavera,
quell’ultima ora e mezza di luce in cui i ricordi si fanno di sale.
“Capisce professore dopo tutto questi anni
rivederla nel mezzo della piazza a fianco di quel vecchio tiranno a convincere
un ragazzino di sedici anni che la sua vita non sarebbe più stata la stessa se
si fosse portato a casa un 78 giri di Benny Goodman insomma c’è da rimanere o
no stupiti?”
Il signor Galileo si chiese tra sé e sé per quale
strano motivo il suo ex alunno Bonaventura parlasse senza virgole, ma si
trattenne dal farne un argomento di discussione. Si limitò a rispondere con una
domanda:
“E così tu e Galileo vi conoscete?”
Galileo, il cane, osservava entrambi steso su un
plaid ai piedi del letto.
“Ma scherza professore Galileo è di casa ma di
sicuro non avrei mai pensato che fosse suo sapesse le volte in cui mi sono
chiesto chi diavolo fosse il padrone…”
Ermes, l’uomo che parlava senza virgole, in un
lampo si ritrovò a raccontare al signor Galileo di come il suo cane lo
visitasse ogni giovedì sera per ascoltare un disco di quelli che lui si
procurava in quella certa maniera, e di come da un mese le sue visite fossero
state sempre più frequenti. Aggiunse anche che era stato lo stesso Galileo a
condurlo in piazza e a farli incontrare.
“Certo…” disse il professore. “Nell’ultimo periodo
sono successe alcune cose.”
E Galileo, l’uomo, in un lampo si ritrovò a
raccontare al suo vecchio alunno come in pochi giorni fosse stato cacciato di
casa e spedito in una clinica per vecchi e malati, del Gracco, dei dischi e del
cane che non sentiva più nemmeno abbaiare, dopo che di vederlo aveva già smesso
da un po’.
Le parole continuarono a scorrere come l’acqua in
un lavandino, e le orecchie del cane restavano gioiosamente drizzate nel
sentire amico e padrone parlare e conoscersi.
Nei giorni successivi Ermes e il cane tornarono
nella stanza del signor Galileo svariate volte, sempre di nascosto dalle
infermiere ma soprattutto dal tignoso Gracco, che già fiutava tracce di
forestieri. Ogni tanto puntava il muso nella stanza e gridava: “Arcetri, ti
aspetto di là per sistemare gli ultimi arrivi!” oppure “Arcetri, domani al
banco in piazza hai il doppio turno!”
Un pomeriggio Ermes affrontò la questione:
“Professore io proprio non capisco perché presta il
fianco agli artigli di quell’uomo è vero capisco che questa cosa dei dischi
l’abbia molto presa nell’ultimo periodo però quello se ne approfitta dia retta
a me.”
Il signor Galileo sapeva che a quelle parole c’era
poco da obiettare. Così, per spostare l’attenzione, diede sfogo al dubbio che
lo assillava da giorni.
“Ma senti Ermes, com’è che quando parli non prendi
mai fiato?”
Ermes rimase con l’espressione fissa e immobile di
chi vorrebbe rimanere da solo dentro una stanza vuota. Poi rispose.
“Professore io tutto il fiato l’ho lasciato anni fa
dentro un sassofono si ricorda?”
Il giorno dopo dalla segreteria della clinica
comunicavano che nessuno aveva più pagato la retta mensile e che la stanza 102
andava liberata.
Il signor Galileo fu accolto a braccetto nella
piccolissima casa di Ermes Bonaventura.
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