I Galilei - Puntata n.7

La musica della scoperta.

La roba stava ammucchiata tutta in una stanza. Era un enorme salone da ricevimenti, buio, con le persiane abbassate, il pavimento lucido e un odore di cera nell’aria. Al centro incombeva, come uno scoglio affiorante dall’acqua, quel cumulo di scatoloni, valigie e casse di legno a cui aveva accennato con un certo distacco il custode all’ingresso della villa.
Entrando, il cane Galileo si era espresso in un guaito rimasto in sospeso tra i quattro angoli della sala per un tempo infinito, mentre il signor Galileo avanzava silenzioso a braccetto di Ermes Bonaventura: nella semioscurità della stanza, avanzata com’era la sua malattia, non vedeva nulla se non fili sottili di luce che lo disturbavano.
“Cosa c’è?” chiese annusando l’aria.
“C’è un mucchio di roba che ci guarda” rispose il suo bastone.
Si avvicinarono. Come un oracolo il signor Galileo stese le braccia in avanti e toccò. Era spaesato ma tranquillo.   
“E ora cosa facciamo voglio dire siamo venuti fin qua qualcosa bisognerà pur fare o no?” domandò Ermes, che tuttora parlava senza virgole e che sentiva il peso di una responsabilità.
Il signor Galileo non era lì per sé, ma per saldare un vecchio debito. Sapeva che in quella montagna di ferri vecchi e reliquie di famiglia non c’era nulla per un vecchio cieco come lui, rimasto senza casa. La partita, lì, doveva giocarla qualcun altro.
“Ti secca farmi sedere?” pregò.
Ermes sfilò una cassa di legno dal grande cumulo e vi ci fece sedere il signor Galileo.
“Grazie. Ora cerca.”
“Cerco cosa?”
“Qualcosa di tuo.”
“Professore qui non c’è nulla di mio.”
“Non si sa mai.”
Ci fu un silenzio breve come certe primavere. Poi il vecchio sentì i primi fruscii, qualche oggetto spostarsi, un calpestio, i cartoni sfregare.
“Un presepe napoletano…” commentò Ermes alla sua prima scoperta.
La cosa sarebbe stata lunga e il professore lo sapeva. Lo sperava, perlomeno.
Il tempo evaporò, si sollevò. La luce del giorno si caricava lentamente di scuro finché dalle fessure delle imposte non entrò qualche fiacco raggio di luna.
Ermes stava scavando ormai da ore in quel monte di cianfrusaglie, e continuamente rendeva conto al signor Galileo di quel che portava alla luce (la luce di un grande lampadario di cui con sforzo aveva trovato l’interruttore): “Bastone da passeggio… Porta carte in osso… Racchette da neve…”
Dei grani di quel lungo rosario, ovviamente, il signor Galileo riconosceva solo l’odore. Restava in ascolto di quel cercare impacciato: metalli che si incontrano, un legno spezzato, pagine impolverate che vengono smosse. C’era nell’aria la sensazione che la vita restasse anche negli oggetti, e che gli oggetti fossero a volte anche più sinceri della vita. Sudato, Ermes ne disseppelliva le tracce. Frugava nella memoria di altri, nelle ragioni di amori poco sbocciati, nelle indifferenze che abitano in tante famiglie. E in mezzo a tante cose non sue, con il passare dei minuti e delle ore, il suo inconscio gli spiegava che i Galilei erano lì per lui, per fargli una sorpresa.
Che musica! Il suono dei desideri, del cuore che tamburella per qualcosa, del ricordo che picchia forte tra il passato ed il futuro.

La villa ora era vuota. Dovevano averli dimenticati lì. Fuori, nel piccolo parco, le punte degli alberi si muovevano al vento di un temporale fatto altrove, lungo la riviera. Dentro la sala il lavorio proseguiva: Galileo il cane dava una mano, odorava scatola dopo scatola, leccava le cose sperimentandone il sapore, finché il suo umido naso sbatté contro una superficie lucida e fredda, leggermente polverosa, liscia come un pomo d’ottone.
Abbaiò perché sapeva.
Ed Ermes corse fino all’altro lato della pila.
“Che c’è cagnone cos’hai trovato?”
Scalpiccio di vecchi fogli di carta di giornale.
“Insomma perché hai abbaiato?”
Se le virgole hanno un suono, se ce l’ha un vecchio filo di spago, che trattiene le cose come fanno i ricordi.
“Vediamo un po’…”
Un pacco che cade. A Ermes tremano le mani. Le mani che toccano. La musica della scoperta. Qualcosa che esce. Un sassofono.
Non appena il tremore passò, l’uomo sistemò le mani e la bocca dove sapeva. Sentì sulla punta della lingua la grana fine della polvere. Poi soffiò dentro l’ancia.

Prima un fischio stridulo come il verso di un gabbiano. Poi un altro, ma più intonato. Infine nel salone, che adesso era diventano grande e pieno come il mondo, si versò una melassa di note che al signor Galileo, tuttora seduto al suo posto, parvero la quintessenza della pienezza, la cosa più corposa e meno incerta che possa mai trovare posto sulla Terra.

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