I Galilei - Puntata n.8

Familiarità.

“So cosa succede. Uso le mani. Ma è difficile spiegare a parole quello che faccio…”
Ermes parlava del suo non sapere con una voce nata di nuovo. I suoi discorsi adesso erano fermi come vecchi alberi, pieni di belle pause, lunghe o corte, messe al punto giusto. L'uomo parlava con le virgole.
“Vede, professore. E’ così: basta diventare coscienti di quello che si fa un attimo dopo averlo fatto. Non prima, non durante e nemmeno troppo in là. Solo un attimo. E’ in quella minuscola assenza che la mano torna al suo posto.”
Erano i primi di settembre. Da più di un mese Ermes passava ogni istante libero insieme al suo strumento. Anche ora, da seduto, lo teneva sdraiato sulle gambe come una mamma col suo bambino, alzando a tempo i talloni per cullarlo e farlo dormire.
Il signor Galileo invece giocava con un tappo di sughero sul tavolo della cucina. Da giorni non faceva altro che chiedergli di suonare, suonare di continuo. Voleva conoscere, sapere com’è che dopo tanti anni le cose non si dimenticano, anzi migliorano, cosa significhi riprendere fiato, proiettarsi dentro qualcosa di così immateriale e ritornare in sé ancora vivi, pronti, forti. Diventare in qualche modo maestri del tempo e delle forme.
Poi trasferì l’ansia degli ultimi giorni alle sue gambe e si alzò. Galileo il cane scattò da sotto il tavolo come un San Bernardo che abbia fiutato aria di valanghe.
“Vorrei andare”, disse.
“E dove?” chiese Ermes.
“Andare a vedere” ribatté l’uomo.
Tutti lì sapevano che il signor Galileo non vedeva quasi più nulla. Ai suoi occhi forme e colori si erano ormai del tutto ingarbugliati in una grande massa di luce diafana che rendeva le cose indistinguibili. Il mondo, per lui, stava seguendo il destino di una supernova: prima di cadere nel buio, esplodeva di luce. Difficile dire cosa volesse e potesse vedere, ora.
“Lo hai con te?” chiese il signor Galileo a Ermes una volta in strada.
“Sì, ce l’ho” rispose lui che camminava con il sassofono ciondolante al collo.
Durante il tragitto, a volte sotto il sole, a volte all’ombra della macchia che cresce oltre gli ultimi palazzi, Ermes rifletteva sull’ossessione che il signor Galileo aveva dimostrato per quello strumento dalla sera in cui lo avevano prelevato dalla villa di suo figlio Bellarmino. E come se avesse intuito i dubbi e le domande che albergavano nei cuori dei sue due compagni (anche il cane Galileo aveva i suoi punti di domanda), il signor Galileo cercò di spiegarsi non appena furono giunti lì dove la baia termina e il faro apre le porte del mare.


“Il fatto è questo” incominciò. “Sono mesi che cerco di prepararmi nel migliore dei modi. Al momento in cui non vedrò più nulla, intendo. Credevo che bastasse un po’ di metodo, di precisione, ma quelli sono nulla e poi spariscono non appena gli eventi rotolano. Come hanno fatto ultimamente…”
In tutto il suo giudizio il cane Galileo notò che il suo omonimo parlava diversamente da un tempo. I suoi discorsi erano pur sempre chiari, eppure velati da una qualche balbettante emozione tra un respiro e l’altro, come quelli delle persone semplici.
“Ho paura del buio” riprese l’uomo. “L’avevo anche da bambino: ogni sera prima di addormentarmi, quando le luci erano tutte spente, io ripassavo a memoria ogni angolo della casa, ribattevo le stanze palmo a palmo, toccavo col pensiero soprammobile dopo soprammobile, e solo quando ero certo di poter ritrovare tutto al suo posto anche nel buio, allora mi lasciavo andare.”
Ermes, con la bocca leggermente aperta, fissava prima il faro e poi il signor Galileo. Gli pareva avessero la stessa intermittenza. Poi, quasi anticipando l’uomo, pronunciò, guardando nel vuoto, la parola familiarità.
“Esatto, sì… familiarità” confermò il signor Galileo. “Ho bisogno di rendere il mondo una cosa familiare ora che le luci della stanza di stanno spegnendo.”
“E il modo?” pensò fra sé il cane Galileo, seccato che non si arrivasse al dunque. “No dico, il modo l’hai trovato?”
Il modo, per un professore di scienze in pensione che non aveva mai creduto nelle cose che non si vedono, doveva essere una cosa chiamata “suono”. Gli ultimi tempi erano stati una palestra dentro cui abituare le orecchie a fare la parte degli occhi, e adesso era venuto il momento di sperimentare quanto fosse possibile vederci, con le orecchie.
“Se solo io sapessi quante navi entrano ed escono dal porto”, cambiò tono il signor Galileo, appoggiandosi alla staccionata. “Se solo io sapessi come sono fatte queste navi, il colore, il tipo, la stazza, se sono navi da guerra o da carico o traghetti pieni di camion o crociere affollate di macchine fotografiche… E se capissi com’è il mare, quanto alte le onde, di che tinta il fondale… La familiarità, giusto? Come da bambino. Quando contavo tutto, catalogavo e conoscevo e stavo tranquillo.”
Non c’era vento. La prua di una nave metteva il naso nelle acque libere del mare aperto.
Ermes aveva capito: suonò una sola, semplice, lunghissima nota grave, con un leggero guizzo metallico sul finale.

Il signor Galileo sorrise e disse: “Ecco, così!”

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