Qualche giorno fa viaggiavo a bordo di
un aeroplano che da Buenos Aires mi avrebbe riportato in Italia. Ero
con due amici, all’aeroporto di Ezeiza la signorina del check-in ci aveva assegnato tre posti vicini, ma una volta salito sull’aereo mi sono accorto che
intere file erano rimaste libere. Ho chiesto all’assistente di volo,
un uomo calvo e dall’accento romano, se mi fosse stato
possibile occupare una delle file vuote. Ho ricevuto un sì deciso e gentile.
Prima di sedermi ho dato
un’occhiata in giro: mi trovavo in coda, a poche file dall’ultima, ed ero
felice. Mi piace la coda dell’aereo, la collego alla terza classe di un vecchio
transatlantico, immagino sempre che ci piazzino gli spiantati e i ritardatari.
Quando l’aereo è decollato ho
salutato con una strizzata d’occhi Buenos Aires, l’Argentina, l’inverno
australe e tutti gli infiniti chilometri di asfalto che in tre settimane di
viaggio avevo battezzato, l’ho fatto con una stretta al cuore, come se qualcuno
da laggiù mi stesse guardando andar via dopo aver speso fino all’ultima goccia
di sudore per convincermi a restare. Era intorno all’una. Un paio di ore dopo il
Boeing è caduto nel torpore e le tendine degli oblò sono state abbassate per
simulare la notte. Un notte finta in cui non riuscivo a dormire.
Poi all’improvviso mi sono
ricordato della tendina chiusa e del finestrino. L’ho alzata, e fuori ho visto
quello che in vita mia non avevo mai visto. Volavamo sopra l’oceano scuro
appena oltre le coste brasiliane, e laggiù, a ovest, sulla fine del mondo, il
sole dipingeva l’orizzonte col più incredibile dei rossi, un’infinita striscia
di sangue che ridisegnava la curvatura terrestre facendomi intuire, come poche
altre volte nella vita, l’esistenza di Dio. Il giorno si spostava un po’ più in
là, correva sempre più a ovest fino a diventare est, per essere giorno altrove.
E mentre la striscia si assottigliava e diventava di un rosa conchiglia ho
pensato che quel sole che ora interpretava la più tragica delle morti l’avrei
visto rinascere qualche ora dopo a Roma, in un’alba che si sarebbe rivelata
pallida e afosa. Il mondo è una grande giostra, mi dicevo.
Per sicurezza non ho più abbassato
la tendina. La notte si inspessiva, fissavo il vuoto imponendomi il sonno, quando l’occhio mi è caduto altrove, nello spazio vuoto tra il sedile davanti a me e
quello reclinato al suo fianco. Era il posto di un argentino basso e dalla
pelle olivastra, sulla quarantina, la testa grossa, una cuffia di tanti e corti
capelli neri; portava una polo scura con il colletto alzato, l’avevo notata
poco prima del decollo e mi aveva fatto ripensare a quella moda terribile
diventata legge per colpa di un calciatore francese. Era un tipo inquieto: aveva
a disposizione tutti i sedili della sua fila e da quando ci eravamo alzati in
aria era stata una migrazione incessante in cerca del più comodo (per un paio
d’ore aveva anche tagliato la testa al toro dormendo completamente sdraiato e
occupandoli tutti). Ma da qualche minuto si era tranquillizzato e aveva scelto
quello al centro.
Sono tornato a guardare verso di
lui che aveva appena aperto un foglio mezzo spiegazzato, a righe, di quelli che
si strappano dal quaderno. Quel foglio era una lettera. Era scritta in un
castigliano semplice, a inchiostro nero, la grafia femminile. Era una lettera d’amore.
L’ho capito con un tuffo al cuore dopo pochissime parole. Una lettera d’amore
va sempre letta, che tu sia o non sia il destinatario. E questa parlava di
litigi, momenti difficili, di una rottura. Parlava a lui ma anche a me, che
insieme a uno sconosciuto leggevo riga per riga senza fretta: un segreto che si
svelava per la prima volta. A tratti staccavo gli occhi, li mettevo sulla
spalla di lui, oppure ne cercavo lo sguardo. Era in quei momenti che mi sentivo
scoperto e il cuore mi batteva più forte. Entrare nella vita dagli altri, così
da vicino, senza chiedere permesso, senza sentirsi in colpa. C’è così poca
distanza, a volte, tra chi deruba e chi è derubato.
Lei continua ad amarlo. Crede che
le cose possano migliorare stando insieme. Si rivolge a lui con quel vos che gli argentini usano al posto del tu, una cosa splendida, ha il
sapore di altri tempi. Ho pensato a quanto sia magnifico trovarsi da soli sopra un
aeroplano che ti sta portando dall’altra parte del mondo e poter leggere la
lettera di una donna. Non credo mi sia mai capitato. Ho ricevuto sì lettere
d’amore, la prima la ricordo ancora perfettamente, era scritta anche quella su
un foglio di quaderno, di quelli con i buchi, color malva. L’ho sempre
conservata in una specie di cassetto bunker, praticamente introvabile, un po’
per gelosia e un po’ per vergogna. Poi sono arrivati i telefoni cellulari. La
memoria affidata ai cip, lo schermo consumato a furia di rileggere lo stesso
messaggio, interpretarlo, impararlo a memoria come una litania o una formula
magica che la faccia comparire esattamente lì, davanti a te, a dirti di persona
le stesse cose. Mai però ho letto d’amore a bordo di un aereo. Per questo lo
invidiavo: fuggire e sapere che qualcuno alle tua spalle ti aspetta. C’è qualcosa di
più bello?
“Ti amerò sempre” proseguiva. Avevamo girato il foglio e attaccato a leggerne il retro. “Voglio
che tu sia felice.” Non era granché originale, ma mi piaceva così. Ho
immaginato chi potesse averla scritta, se era bella, se era una ragazzina oppure
una donna in carriera ormai disabituata a usare carta e penna; mi sono chiesto
se si trattasse di una relazione clandestina, segreta, oppure di un rapporto
duraturo che andava spegnendosi, magari un matrimonio; ho provato a osservare
la scena di lei che scrive in cucina, dentro un appartamento alla periferia di
Buenos Aires, ma non sono riuscito a scegliere in che modo gliela possa aver consegnata:
sulla porta di casa, guardandolo andar via, oppure all’aeroporto, all’ultimo
secondo, dopo una corsa in taxi e con il fiatone che toglie le parole.
Quel che è certo è che lei sapeva
della sua partenza. Nella lettera gli augura che questo tempo da passare
lontano possa aiutarlo a scegliere se darle un’altra opportunità oppure no.
Scrive con un tono gentile e premuroso e allo stesso tempo insistente. Arriva a
supplicarlo di non farla soffrire, che qualsiasi sia la sua scelta gliela faccia sapere subito, anche da lontano. E io già da qualche riga ho iniziato a
pormi la domanda più scontata: dove sta andando costui? A fare che? E
soprattutto: perché non ha aperto subito la lettera ma ha aspettato tutte
queste ore?
Più si avvicinava la fine più i
caratteri si facevano grandi, l’interlinea aumentava, la scrittura si stortava.
“Ti amo” ripetuto all’infinito, disperato, un po’ fanciullo. Mi mancava solo
una cosa per dire di aver completato la mia lettura, la cosa più importante,
quella senza la quale tutto sarebbe rimasto una beata invenzione: il nome di
lei. Ho giurato a me stesso che non l’avrei mai dimenticato, che sarebbe
rimasto per sempre in un angolo, in attesa di scriverci un libro o di
incontrare una donna dallo stesso nome e sposarla. Ero certo ci fosse un motivo nascosto dietro al destino di capitare dentro a una cosa così. Ma ecco che quando mancava
meno di un centimetro per poterlo leggere, quando già ero arrivato a scorgere
il tua seguito dalla virgola, il
foglio ha smesso di scorrere. Lui è rimasto immobile, evidentemente era giunto
alla fine prima di me, aveva letto anche il p.s.
che io solo intuivo.
Dal mio nascondiglio, fissando
oltre il pertugio con più desiderio di prima, l’ho pregato di andare avanti per
un solo centimetro. L’ho fatto con così tanta foga che per un attimo ho temuto
di aver parlato. Ma l’uomo è restato senza muoversi per un tempo che mi è parso
infinito. Poi finalmente si è mosso: eccolo, lo vedevo girare il foglio sulla
prima pagina, osservarla, voltarla a testa in giù. E d’improvviso, senza che il
mio cuore se lo potesse minimamente aspettare, appallottolare il foglio con
entrambe le mani. E’ stato un gesto compostissimo, quasi rilassato, gli ho
visto le dita grassocce stringere la carta fino a schiacciarla, sul medio della
mano sinistra portava un grosso anello d’oro. Quando si è chinato per riporre
la lettera tra i rifiuti il suo volto era annoiato, senza espressione. Si è
alzato, dopo un minuto era di ritorno con un bicchiere di Fanta e dei salatini.
Si è messo a guardare un film giapponese.
Adesso fuori dal finestrino vedevo
la notte africana. Algeri dall’alto era un alveare di luci, le sue strade si
perdevano nel deserto per chilometri. Le navi in rada mi apparivano lucciole sottili nel
buio d’acqua.
L'aereo era tornato vuoto come le ore, come i segreti che si perdono, come le domande senza risposta.
2 commenti:
...è tutto così intenso, e vivo, che leggendolo mi è parso di essere salita anch'io su quel volo!
Un abbraccio
Marty
Un abbraccio a te. Attenta che quel volo è maledettamente lungo! a presto...
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