Sottolineature da Borges

Sono entrato realmente in contatto con la scrittura di Jorge Luis Borges un pomeriggio assolato della scorsa primavera, quando mi era possibile leggere all'aperto, in alto a una torretta, nella magnifica pace delle mie prime solitudini. Pensavo che leggere della poesia in lingua potesse aiutarmi con il mio spagnolo (meditavo di raggiungere presto quella terra che a Borges ha dato i natali) e così, in un'antologia di poesia americana del '900, mi imbattei in un lungo elenco di quartine di endecasillabi che porta il nome di Ariosto y los arabes. Restai rapito dai primi cinque versi, che restano tuttora una delle poche cose dette in spagnolo che potrei ripetere a memoria (le altre appartengono, con immutata dignità letteraria, ai ritornelli dei Righeira): 

Nadie puede escribir un libro. Para que                         Nessuno può scrivere un libro. Un libro
un libro sea verdaderamente,                                          perché esista davvero, è necessaria
se requieren la aurora y el poniente,                              l'aurora col tramonto, secoli, armi
siglos, armas y el mar que une y separa.                        e il vasto mare che unisce e separa.
   
Asì lo pensò Ariosto...                                                      Così pensava Ariosto...                                   

Al primo verso ero già cotto di Borges. "Nessuno può scrivere un libro". Esistono parole più definitive? Nell'Apocalisse di San Giovanni? O nell'epopea di Gilgamesh? Ridevo e pensavo tra me che avrei dovuto correre al più presto da un notaio per mettere nero su bianco come avrebbe dovuto incominciare il mio testamento. Perché in quella frase, troppo facile a dirsi, c'è la più grande consolazione per coloro che si ritengono scrittori incompiuti, una specie di "liberi tutti" che ci sgrava da ogni ansia e ci dà il permesso di uscire per un aperitivo in centro senza alcun rimorso di coscienza. Niente più fatiche e struggimenti. La partita è annullata.
Una medesima sfiducia nel potenziale creativo della scrittura Borges la doveva esprimere nel prologo di Storia universale dell'infamia (1935), dove presenta al lettore i suoi scritti come "l'irresponsabile gioco di un timido che non ha avuto il coraggio di scrivere racconti e che per svagarsi ha falsificato e distorto (talora senza alcuna giustificazione estetica) storie altrui". Se nessuno può scrivere un libro, si diventa scrittori riscrivendo. La stessa cosa che a ben vedere fece Ariosto, componendo l'Orlando Furioso a partire dall'Innamorato del Boiardo. Borges è Ariosto, insomma.
Mi viene da osservare che è proprio in questa poetica del limite che si realizza il processo creativo: in quella quartina Borges non si limita ad affermare quel che è impossibile, ma prosegue compendiando ciò che dovrebbe essere la letteratura. E' come se l'autore argentino vivesse una profonda spaccatura tra ciò che non può essere e ciò che deve essere. Ed è qui che interviene, improrogabile, il destino individuale. Afferma Asterione, protagonista di uno dei racconti contenuti in L'Aleph (1949): "La verità è che sono unico. Non mi interessa ciò che un uomo può trasmettere ad altri uomini; come il filosofo, penso che nulla può essere comunicato attraverso l'arte della scrittura." Una spaccatura sottolineata anche dalla studiosa americana Helena Percas: "Borges vede nella lingua l'unico mezzo di cui dispone l'uomo per rivelare e fissare la sua verità umana; perciò essa è per lui una costante preoccupazione."
Eccomi tornato al mio inizio, a quel verso iniziale e al suo senso di liberazione. Vedo in Borges l'uomo travagliato, lo scrittore incerto che ama e odia ciò di cui, in ogni caso, non può fare a meno. Colui che per fissare il reale ha bisogno del metafisico, di un fantastico che non scappi nell'etere ma che resti qui per dare senso a quel che c'è.
Nell'ultimo mese ho letto ogni mattina, appena alzato, un passo dell'Aleph. "Leggere, del resto, è un'attività successiva a quella di scrivere: più rassegnata, più civile, più intellettuale" diceva Borges.


   
  

Provviste #19 - Atlante delle isole remote



Judith Schalansky ha scritto questo libro per me. La devo proprio ringraziare. Soprattutto per quella dedica iniziale, in cui mi pare metta perfettamente nero su bianco un pensiero che devo averle riferito in uno dei nostri incontri. Incontri avvenuti certamente in un’altra vita, dato che io e lei – in questa – non ci siamo mai incontrati. Judith scrive così:
“Che una bambina della mia classe fosse nata davvero a Helsinki, come c’era scritto sul suo documento d’identità, aveva per me dell’incredibile. H-e-l-s-i-n-k-i: queste otto lettere divennero la chiave per un altro mondo, e ancora oggi mi capita di trattare con mal celato stupore i tedeschi che, per esempio, sono nati a Nairobi o a Los Angeles, e non di rado li considero solo degli sbruffoni, proprio come se affermassero di venire da Atlantide, da Thule o da El Dorado. Naturalmente so che Nairobi e Los Angeles esistono davvero. Queste città infatti sono segnate sulla carte. Ma che qualcuno possa esserci stato realmente, o che addirittura ci sia nato, per me è inconcepibile, oggi come allora.”
Davvero non so come Judith possa esserne a conoscenza. Ma anch’io sono cresciuto con questo esatto pensiero. E più volte mi sono trovato a viaggiare con il solo obiettivo di controllare che certi luoghi – quelli che mille volte ho toccato sopra il mio Atlante Zanichelli tenuto insieme con lo scotch – esistessero per davvero. Mi è capitato a Buenos Aires, a Istanbul, a New York e a Oslo. Ed è il motivo per cui vorrei fiondarmi a Baku, a Ulan Bator, a Santiago del Cile e ad Antananarivo. Devono avere nomi esotici, epici, crudi; devono avere una storia travagliata (per questo va benissimo anche Sarajevo); non devono essere belli: se non sono belli meglio, basta che io ci possa andare e abbia conferma che le carte non mentivano, che le immagini viste in tv non fossero fotomontaggi.
Considero gli atlanti i più bei romanzi scritti dall’uomo. Spesso anche loro ingannano (la carta, il planisfero, il mappamondo ingannano sempre – niente può essere perfetta rappresentazione della Terra), ma lo fanno benissimo. “Sull’infinita Terra sferica, ogni punto può diventare il centro” dice la mia amica Judith, che è nata nella Germania Est e per molto tempo ha usato l’atlante per viaggiare in tutti quei luoghi, anche vicinissimi, che le erano proibiti. Sento che qui c’è di mezzo la vecchia questione del “vicino” e del “lontano”, e non sbaglia chi ha definito questo libro una sorta di epica della lontananza.
“Atlante delle isole remote. Cinquanta isole dove non sono mai stata e mai andrò” è un compendio di luoghi infinitamente distanti e storie nate ai margini. Perché le isole? Perché esse sono come piccoli continenti imprigionati da un Oceano senza fine: spesso li crediamo dei paradisi, ma, come dice Judith, possono trasformarsi in inferni belli e buoni. Luoghi dove muoiono bambini o dove ricchi miliardari traslocano insieme alle loro follie.
Certamente le isole scelte da Judith hanno in comune il trovarsi a migliaia e migliaia di chilometri dalla terraferma. Sono puntini che spesso le carte dimenticano. Davvero non ci si spiega come un mucchietto di terra e rocce possa essere caduto nel mezzo del nulla, lì dove per esempio sorgono Diego Garcia o Sant’Elena o Pasqua.

A me piace pensare che siano le briciole cadute dalla tovaglia di Dio. E non mi accontento, come fa Judith. Io su una di queste ci voglio capitare per davvero, dare un’occhiata, farmi venire la voglia di tornare a casa e raccontare tutto.

Judith Schalansky
“Atlante delle isole remote - Cinquanta isole dove non sono mai stata e mai andrò”
Bompiani, 2013
pag. 142

Il teatro

E pensare che potevi esserci anche tu. Ci avevo pensato, sai, di invitarti a teatro questa domenica. Mi ero detto così: magari le scrivo per sapere se le piace il teatro, e se le piace le dico che c'è questo spettacolo qui, che un mio amico ci ha fatto le musiche e che magari potremmo andarci insieme. Ma poi ho commesso una serie di errori tra cui quello di provare a venire in quel locale pieno così di gente e con la scusa di bere qualcosa poterti guardare e magari parlare. Però il locale era un po' troppo pieno e allora succede che io in quelle situazioni non mi senta tanto bene così sono stato zitto, mi sono fatto largo in quella bolgia che urlava sopra quel pezzo di Jovanotti e sono uscito a cercare una fettina d'aria da respirare. Avevo un po' di quella vecchia paura, quella di stare male in un posto pieno di gente e non sapere che fare. Poi mentre ero lì che fumavo in un angolino ho visto uscire una persona che conosco bene per essere stato il suo professore (non stiamo qui a discutere del fatto che professori e studenti capitino nella stessa discoteca, altrimenti non finiamo più). Era appena svenuta, il suo ragazzo e uno dei buttafuori la reggevano e alla fine sono venuti proprio dove ero io. Dopo un po' si è ripresa, così le ho fatto compagnia cercando di tranquillizzarla mentre il suo ragazzo andava a prendere le giacche, e intanto che lei guardava nel vuoto io come un pirla le chiedevo su cosa avrebbe fatto la tesina di maturità, ma intanto pensavo: cazzo potevo essere io, e invece è toccato a lei. E' toccato a lei che non ha bevuto nulla, mentre io, se proprio dobbiamo metterla sul bere, sono già avanti di due coca e jack.
Cinque minuti dopo ho chiesto ai miei amici se anche noi per piacere ce ne potevamo andare, e mentre mi accendevo l'ennesima sigaretta mi ricordavo perfettamente di quella giacchetta rossa che portavi perché alla fine ti ho vista e ti sono stato davanti un minuto buono senza dire una parola. E mi vergognavo un po' di tutto, voglio dire, della mia età, del posto in cui ero appena stato, di quello che mi era venuto al cuore. E niente, ci mancava anche di scriverti così dal nulla per invitarti a teatro. Chissà cosa te ne frega a te del teatro.
Ci sono andato da solo. Tra l'altro mi è toccato anche pagare due biglietti: il ragazzo dietro al vetro diceva che la mia prenotazione era per due e che ne dovevo pagare due. Sì, ma io sono da solo, gli ho detto. Fa niente, ormai ne ho stampati due. Eh ma magari qualcuno non trova posto e non può entrare mentre io ne ho uno in più, gli ho fatto notare. Mi spiace, non li cambiamo, e non se la prenda con noi, ha detto. No, non me la prendo con voi però cosa faccio adesso, mi metto fuori a fare il bagarino? Veda lei, mi ha risposto, basta che non lo fa qua, e ha indicato l'ingresso del teatro tutto pieno di gente in fila che mi guardava male e si lamentava. Alla fine sono entrato con quei due biglietti e allora ho pensato: vedi, è un po' come se ci fossi anche tu, t'è capitato il posto proprio accanto al mio. E avrei voluto che quel posto rimanesse libero libero perché c'eri tu lì con me, ma poi la signora seduta davanti si è voltata, ha visto che non c'era nessuno al mio fianco e mi ha chiesto se per favore poggiavo il suo paltò verde proprio lì, dove potevi esserci tu. 
Poi è venuto buio, le voci sono scomparse e per cinque secondi tutto era nero. Ho pensato ancora a quella cosa lì, a quella che mi viene quando non deve, e infatti lei è arrivata puntuale quando gli attori in scena parlavano sopra a un tappeto di clarinetto. Guardavo la camicetta di seta gialla che portava lei, così composta nei gesti, e tentavo di convincermi che è pur sempre meglio un cuore che batte all'impazzata piuttosto che uno che non batte per nulla. Ma non serviva, e allora continuavo a graffiarmi i palmi delle mani. All'improvviso un urlo ha squarciato la sala, un uomo seduto al centro si era sentito male, se ne stava rigido con l'occhio vitreo e dava scosse con le gambe e con la braccia. Sua moglie urlava come se fosse già morto quando le luci si sono accese e delle persone sono corse in quella direzione ripetendo un medico, un medico, chiamatelo subito. Io avrei voluto fare qualcosa e stavo anche per muovermi ma poi ho sentito quella solita frase che si dice sempre, tipo largo, fategli spazio, lasciate fare, e dunque sono rimasto dov'ero mica di dare fastidio. Ho anche pensato che per la seconda volta in poche ore avevo passato il mio male a qualcun altro: prima la ragazza in discoteca, poi questo signore in platea. Possibile? mi chiedevo. 
Ho guardato i due attori, immobili sulla scena, mi sono detto che tutto si era rotto, che erano piombati all'improvviso nel mondo reale, anche la camicetta gialla di lei era tornata ad essere una camicetta qualunque, nei loro occhi tutte le preoccupazioni per una storia d'amore malata avevano lasciato il posto alle preoccupazioni per una persona vera, che esiste davvero. A un certo punto hanno persino varcato la soglia invalicabile, quella del palco, quella sacra, e sono venuti in mezzo a noi, hanno seguito quell'uomo fin sul portone della sala mentre i signori dell'ambulanza lo portavano via, per fortuna cosciente. Sono trascorsi minuti, le luci restavano accese, poi hanno detto che si ricominciava, di mettersi ognuno al suo posto, io mi sono voltato e il paltò verde era ancora lì. Allora mi sono detto che era stata una fortuna non aver avuto il coraggio di invitarti a teatro. Ecco sì, che forse sei proprio fortunata a non conoscermi. Porto una sfiga tremenda. Anche se io vorrei dirti un'altra cosa, vorrei convincerti che se stai con me tutte le cose brutte succedono agli altri.



Post scriptum: ogni riferimento a persone o a fatti realmente accaduti è puramente casuale, forse. E tu sei tu, oppure chiunque, oppure nessuno. Mettetevi d'accordo e poi mi fate sapere.


Su tre lati argentini #4 (Tucuman-Tafì)

Fuori dall'aeroporto di Tucuman ci sono le stelle e una grande pianura buia. Il volo da Buenos Aires è atterrato in orario, le famiglie con il passeggino, qualche signora abbronzata e due anziani se ne vanno in pochi minuti. Poi resta il silenzio e una vecchia Ford marrone chiaro. La portiera cigola, un uomo si offre di condurci in città.
Le prime luci sono avvolte dalla nebbia. Deve essere all'incirca mezzanotte e l'aria un poco più calda rispetto alla capitale. Dal finestrino scorgo altri segni di povertà: un carro, un cavallo e una famiglia sopra. Sono case basse di mattoni, bar aperti fino a tardi e ragazzi che fumano. Ogni tanto qualcuno attraversa il vialone con superbia e sprezzo del pericolo. 
Lentamente la città prende forma insieme alle insegne di un Casinò e di qualche hotel, lo Sheraton per esempio. Ma si sente che non sono veri. La città è più brutta, di notte persino minacciosa. Nel nostro albergo ci sono luci basse. Assisto al viavai di ragazzine truccate vestite succinte: in una sala dei sotterranei dev'essere in corso una festa. E' sabato sera tardi, passano solo donne, ma a dire il vero sono bambine. 
La mattina non sappiamo che fare, dove andare. La signorina al bancone consiglia Tafì del Valle, un posto bello, con il lago, loro se possono ci vanno nei week end estivi. Allora trasciniamo gli zaini fino alla stazione degli autobus: di giorno la città è ancora più brutta. Cammino sperando che qualcosa all'improvviso cambi, che questa o quella via ci facciano sbucare in una bella piazza con una bella chiesa o un palazzo o qualcosa, ma nulla. Il nostro percorso è fatto apposta perché di San Miguel de Tucuman noi possiamo portarci via una brutta impressione. Eppure è qui che nel 1816 è nata la Repubblica Argentina, è qui che fu costruito il primo palazzo del Congresso. Dov'è? Il parco 9 de Julio rende assai poco onore a quella storica data. Sono grandi prati spelacchiati sopra cui si gioca a pallone. Gli alberi spogli, la basura, l'immondizia un po' ovunque. Mi dico che la Gloria e la Storia qui ci mettono piede solamente d'estate.

Non ricordo cosa mi disse quel vecchio dalle grandi rughe che incontrai alla stazione degli autobus di Tucuman. Diceva di avere origini spagnole e di essere stato in Italia così tanto tempo fa. Faceva il marinaio. E mi parlò di oro, lingotti d'oro, credo. Ma non riesco ad andare oltre. Mi fece così con la mano mentre salivo sul pullman. Prima mi aveva persino baciato.
Uscire dalla città fu una cosa lentissima, ricordo un intero paese bloccato per via del mercato. Poi prendemmo finalmente velocità e i campi di canna da zucchero si fecero sentire ai nostri nasi prima ancora di comparire davanti ai nostri occhi. Mi addormentai. Al mio risveglio l'autobus si stava inerpicando su per alcuni stretti tornanti: era un paesaggio di montagna come quelli che già conoscevo. Legni secchi, prati, alpeggi di pietra. Ma tutto mutò rapidamente: ancora qualche tornante e venne la foresta sub-tropicale. L'aria umida scaldata dal sole, i vapori, la vegetazione opprimente. La montagna era un muro. Poi i tornanti sparirono: era l'altipiano di erba gialla, macchie di neve, le vette della precordigliera. Un deserto a 2.500 metri. 
Dissi per la prima volta che mai avevo visto roba simile. Il lago artificiale era uno specchio di luce grigia nell'enorme conca della valle. L'autobus si fermò a El Mollar, sulle sue sponde. Poi proseguì fino a Tafì del Valle, il sole batteva forte e l'aria restava fredda e pungente. Trovammo da dormire in una estancia al bordo del paesino, nel giardino un gruppo di lama restava immobile nella luce. Sentivo nascere in me la frenesia del cuore che ancora collego istintivamente a quelle montagne. La parola "Ande" ha per me una sola traduzione: "ciò che non si può contenere".
Quella sera, mentre fuori la temperatura precipitava sotto lo zero, mentre le braci di qualche parilla si smorzavano lentamente sotto le stelle, scrivevo queste cose davanti al computer nella sala da pranzo del nostro rifugio:

Qui Tafi' del Valle, 2000 metri, sulla celebre Ruta 40 che dalla Bolivia scende fino alla Terra del Fuoco passando anche da Bariloche. Scrivo che e' notte e la temperatura scende sotto lo zero. Non c'e' nulla, se non le stelle che non ho mai visto, un lago, le montagne intorno. Non c'e' nemmeno il programma dei giorni che verranno, santo cielo quanta strada. Pero' c'e' quella solita frenesia di andare macinare vedere esserci e vivere le cose lontane. C'e' la paura di essere fuori tempo, fuori luogo, fuori tutto. E ci sono le nostre prime foglie di coca, comprate per 15 pesos in un negozio indio. C'e' anche da inseguire il Re del Mondo, che ci tiene prigioniero il cuore. Lo trovero', se non qui, altrove.

Il mattino seguenti avrei visto solo il rosa di un'alba fredda. Il crinale dei monti ghiacciato, la nebbia sul lago. Il suono delle mie Nike sopra il prato duro coperto di brina.
In quel momento pensai all'uomo che il pomeriggio prima ci aveva fatto fare avanti e indietro dal lago per 150 pesos. Viaggiava su una Fiat Uno e masticava foglie di coca. Le sue mani, le sue unghie. Adesso era ancora lì, alla stazione. 700 pesos, per Cafayate. 


Il turno di notte

L'attentato di Parigi esplode delle solite catene, dei video, delle prese di posizione, dei dibattiti. Genera slogan, ripropone vecchie teorie di complotti, dimentica i fatti per creare antefatti e ipotizzare scenari futuri. Retweetta, condividi, metti un like. Difendi la libertà d'opinione con un click. E intanto bada bene a fartene una, di opinione. Posta, copia e incolla. Guarda e riguarda nei dettagli. 
Così il mondo si ingolfa. Con tutto questo rumore il suo cuore rischia l'arresto.
Scriveva Izet Sarajlic, poeta bosniaco nato a Doboj: "Chi ha fatto il turno di notte per impedire l'arresto del cuore del mondo? Noi, i poeti".
Le sue parole mi ricordano che è proprio vero. Perché nel mare di cose che ho letto in queste poche ore, sento venire a galla e confortarmi il pensiero dello scrittore libanese Dyab Abou Jahjah, che con un tweet ha spezzato la catena di "Io sono Charlie", l'hashtag (o se volete, lo slogan) nato a sostegno delle vittime del settimanale Charlie Hebdo. Scrive:
"Io non sono Charlie. Io sono Ahmed, il poliziotto morto. Charlie Hebdo metteva in ridicolo la mia fede e la mia cultura e io sono morto per difendere il suo diritto di farlo". 
Le catene, anche le più nobili, legano sempre. Ci costringono i pensieri. Limitano le prospettive. E forse non fanno in tempo a costruire la pace.
Il poeta invece offre uno sguardo nuovo e diverso sulle cose. Impedisce che il cuore del mondo smetta di battere.

Facciamo il turno di notte, un po' per volta. Facciamolo al lume della consapevolezza che ogni storia ha tante storie e che i protagonisti, i buoni, i cattivi, non li possiamo scegliere noi.
Dopodiché facciamoci un'idea. Ma se non abbiamo parole nuove, coltiviamo la tolleranza nel silenzio.