I Galilei - Puntata n.3

Quando un cieco piange

I libri di antropologia raccontano che nelle società tradizionali della Nuova Guinea, quando due appartenenti a tribù rivali s’incontrano al di fuori dei loro rispettivi villaggi, danno avvio a una lunga discussione per cercare di stabilire se abbiano tra loro qualche parente in comune. Se poi proprio non ne trovano, allora si scannano a vicenda.
Il signor Galileo, diffidente e poco avvezzo alle visite, sospettoso di quella macchia grigiastra che scorgeva attraverso lo spioncino, mise in atto più o meno la stessa tecnica aborigena finché, dopo aver indagato ogni grado di parentela dell’ospite e averne concluso che si trattava di suo figlio, aprì la porta.
“Dov’è finito il tuo ordine, papà?” indagò Bellarmino tagliando la soffitta in due falcate fino a raggiungere la finestra. Ispezionava tutto con un viso da rapace notturno, le pupille aperte come periscopi, evitando di proposito gli occhi del padre. Gli doleva constatare, sugli angoli alle pareti, la capillarità con cui si stavano distribuendo frange di ragnatele tanto spesse da far pensare allo zucchero filato.
“Ultimamente ho avuto poco tempo…” rispose il signor Galileo, ancora immobile nei pressi della porta. Effettivamente in poco tempo la sua soffitta si era ingarbugliata senza che lui se ne fosse ancora accorto.
“Il tuo cane?” chiese Bellarmino riattizzando il colloquio. Ora stava seduto sulla poltrona come un uomo addestrato al potere. Solo ogni tanto quel suo agitare il polso per far scivolare l’orologio un po’ più giù gli restituiva i tratti della persona che un tempo era stata giovane e semplice.
“Non so, non torna da due giorni…” ribatté Galileo con una voce leggermente strozzata ma decisa. “Giovedì abbiamo pranzato, poi lui è uscito e adesso non so.”
Bellarmino passò a una voce del tutto accomodante, eppure più volitiva: “Sarai sereno, spero. Quel cane era insolente. Per non parlare di quello che oggigiorno costa mantenere una bestia.”
“Ma senza di lui faccio fatica a far tutto” spiegò il signor Galileo senza nemmeno accennare a quella cosa tra uomo e animale catalogata sotto la voce “amicizia”.
“A proposito di quello che riesci o non riesci a fare: ho parlato con il medico. Dice che la tua vista è definitivamente compromessa.”
“Ma, è molto che non mi fa visita.”
“Appunto, sono stato da lui ieri. E secondo il suo parere, arrivati a questo punto, la schermatura della retina dovrebbe aver già raggiunto l’ultimo stadio.”
“Beh, insomma… ultimo stadio. Non esageriamo.”
“Quanti sono questi?” reagì fulmineo Bellarmino.
“Quali?”
“Questi!”
Nell’aria sbandierava quattro dita a ventaglio. Non arrivò risposta.
“Bene. A questo punto mi sembra inutile andare oltre” concluse riabbassando la mano con la mimica severa dello scienziato che ha dimostrato senza sforzo la sua teoria.

Quando, tre giorni dopo, il signor Galileo si ritrovò nella stanza 102 di una clinica del centro, non ebbe più alcun dubbio sul perché suo figlio si fosse dimostrato tanto risoluto nel sostenere che non poteva più abitare da solo: l’aveva spedito lì per impossessarsi della sua soffitta e metterla nelle mani della sua società immobiliare, azienda per la quale – Galileo lo ricordava – aveva fatto anche da garante al tempo in cui il ragazzo doveva “farsi”.
Bellarmino aveva fatto trasferire poca cosa dei suoi effetti personali: mancavano tutti i libri, la pipa e le riviste scientifiche che aveva catalogato con laboriosità proprio negli ultimi mesi. Gli eventi avevano colto il signor Galileo non tanto con la furia della tempesta quanto con il morbo della bonaccia: l’avevano reso inerte, incapace di organizzare reazioni. Così l’unica cosa che fece una volta ambientatosi nel nuovo ambiente fu cambiare le federe del cuscino con le proprie portate da casa. Lontano dalla sua soffitta, il solo posto che riusciva a vedere anche senza i suoi occhi, sembrava fosse caduto anzitempo nel pieno della sua prossima cecità. E di questo gemeva tra sé e sé.
“Porti sempre con sé quel telecomando. Il tasto centrale chiama l’infermiera” disse una voce ruvida che proveniva dalla porta.
“Buongiorno” si affrettò a replicare Galileo voltandosi in quella direzione.
“Sto nella stanza accanto” proseguì l’uomo come se non avesse sentito il saluto. “Ormai qui sono di casa, perciò se ha bisogno di favori o cose del genere, chieda a me. Qualcosa le costerà, ma poco…”
“Capisco. Beh, signore, ne terrò conto.” Galileo, nella penombra, distingueva appena una figura bassa e magra, con quello che sembrava un bastone.
“Mi pare di intuire che siamo qui per lo stesso motivo” riattaccò lo sconosciuto.
“Se è vero quello che dice, non mi capacito di come possa rendersene conto…” fece Galileo, stupito.
“Fiuto” disse, “Sono un cieco e il mio mondo è pallido quando un cieco piange…” recitò poi con la voce grossa.
“Come?”
“Nulla, parole di altri. Si chiamano Deep Purple.”
Tre minuti dopo Galileo era nella stanza 103, quella a fianco, ad ascoltare le parole di una canzone rock da un disco che il suo corridoio vicino di camere aveva presentato come una prima stampa sì, ma polacca, per cui di scarso valore. Aveva anche raccontato che risiedeva nella pensione da ormai cinque anni, un lusso pagato interamente con l’eredità di una zia, ma che durante il giorno usciva per occuparsi di questioni molto importanti.
“Dalla nascita?” osò chiedere il signor Galileo ora che si sentiva un po’ più in confidenza. “Voglio dire… la vista…”
“Sì. Lei sembra uno nuovo, invece. Pesta ancora contro parecchi spigoli…”
“Ha ragione. Diciamo ipovedente
. Per adesso, luci e ombre rimangono.”
Un abbaiare canino proveniente dalla strada destò l’attenzione dei due. Il cieco, con tutta la sua esperienza, guidò il quasi-cieco sul balconcino della stanza. Le loro pelli si scaldarono con i raggi del sole e Galileo abbassò lo sguardo senza riconoscere nessuna forma.
“Galileo, sei tu?” gridò a voce alta l’uomo.
Quando Galileo, il cane, riconobbe il volto del Gracco a fianco di quello del padrone capì che le cose erano notevolmente cambiate nei giorni in cui era stato lontano.
“Dev’essere il mio cane! Mancava da un po’…” disse Galileo, l’uomo, preso da un’istantanea euforia.

“Quest’odore non mi è nuovo” ribatté il Gracco scuotendo le narici come un golden retriever.  

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